Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana, aveva come fonte di principale ispirazione la Costituzione e il Vangelo. In quest’uomo meraviglioso, criticato ed emarginato nel suo tempo ed oggi pericolosamente mitizzato, il messaggio cristiano conviveva, senza nessun possibile ostacolo o contraddizione, con il senso laico dello Stato e delle Leggi, in una mirabile e proficua sintesi che tendeva innanzitutto ad includere chi, appartenendo ad una classe sociale povera e disagiata, veniva escluso dalla cultura. Non a caso quando era cappellano di San Donato, il primo atto compiuto nella scuola popolare e che suscitò non poco scalpore nelle gerarchie ecclesiastiche, fu quello di togliere il crocifisso dalla parete dell’aula: non voleva allontanare i figli dei comunisti, peraltro non pochi tra le montagne del Mugello. Un atto fortemente simbolico che conteneva, per chi ha saputo e voluto leggerlo, tutta la sua pedagogia, e realizzava pienamente, come d’incanto, lo spirito della Costituzione: all’interno di questa scuola, mandava a dire don Milani, siamo tutti uguali, senza distinzione di sesso, di razza, di religione o di ceto. Non esistono né barriere né confini. Non è ammessa nessuna discriminazione. A Barbiana venne affisso un cartello che in poche e folgoranti parole sintetizzava meglio di ogni trattato i valori che animavano la comunità: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I CARE». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego»”.

Il Vangelo dunque,  per affermare l’amore per gli umili e gli esclusi di sempre; la Costituzione, formidabile e potente strumento nelle mani degli emarginati e degli sfruttati per chiedere maggiore giustizia e pari opportunità nel solco della legalità, e l’antifascismo, come unica e sostanziale discriminante, come valore fondante per educare alla democrazia.

Amore e Giustizia sono le due parole chiave su cui don Milani faceva leva nell’insegnamento quotidiano ai suoi figlioli, come li amava chiamare, ma anche nelle violenta polemica contro i cappellani militari toscani che gli costò un processo con l’accusa di apologia di reato per aver difeso le ragioni degli obiettori di coscienza, della pace e della non violenza. Assolto in primo grado “perché il fatto non costituisce reato”, nella sentenza al processo d’appello, don Milani morto, si afferma che “il reato è estinto per morte del reo”: in pratica viene condannato.

Ebbene, con la forza e la chiarezza che sempre lo avevano contraddistinto, nella lettera ai cappellani militari affermava: “Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.

E tuttavia, il suo sentirsi senza Patria mai ha significato un orientamento anarchico, che vedeva come diseducativo e fuorviante ma, piuttosto, una tenace volontà di estendere i diritti fondamentali a tutti gli uomini: coerentemente con la sua idea di giustizia e di legalità. Si sentiva un cittadino del mondo. L’urgenza che avvertiva di includere e condividere nasceva in lui, figlio di una ebrea, dalla profonda ferita umana e politica lasciata aperta dalla Shoah e dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

È fuori di dubbio che l’attenzione posta ai principi della Costituzione e, conseguentemente, al tema dei diritti e della legalità, evidenzia una cultura illuminista e cosmopolita che, come in Manzoni, non si contraddice assorbendo la parte più avanzata del cattolicesimo. Le osservazioni critiche suggerite da Leonardo Sciascia a proposito di Manzoni (“è stato detto che ha convertito, convertendosi, l’illuminismo al cattolicesimo; ma io penso che in lui è forse accaduto il contrario: il cattolicesimo si è convertito all’illuminismo”) sono perfette anche per don Milani.

Egli guidava i suoi figlioli verso il riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dai sindacati e dai partiti in una democrazia compiuta, insegnava loro il senso politico: l’utilizzo dello sciopero e del voto come strumenti di lotta non violenti e come concreto esercizio dei diritti sanciti dalla Costituzione. Come affermava nella Lettera ai giudici: “La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico”.

Una scuola dunque, che non solo non discrimina, ma in grado di fornire ai più deboli gli strumenti per poter migliorare la propria condizione. Per don Milani era del tutto evidente come il maestro si dovesse assumere la responsabilità di fare entrare la politica nelle aule: “Posso solo dir loro [ai ragazzi] che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.

Di questo esplicito richiamo alla responsabilità individuale e dell’invito altrettanto esplicito ad entrare nelle sezioni dei partiti e dei sindacati che rivolgeva continuamente ai ragazzi, rimane la memorabile lezione che fece in occasione di una festa da ballo organizzata all’interno della scuola di Borgo San Lorenzo con l’autorizzazione del Preside. Ad una ragazzina che gli obiettava come “alle riunioni sindacali e politiche non si capisce nulla”, don Milani rispondeva: “Eppure probabilmente l’anno prossimo andrai a lavorare e avrai davanti responsabilità immense: licenzieranno una tua compagna di lavoro e dovrai decidere se scioperi o no per lei, se difenderla o no, se sacrificarti o non sacrificarti per lei, se andare in corteo davanti alla prefettura o davanti alla direzione, se rovesciare le macchine e rompere i vetri oppure se tu dovrai zitta zitta chinare la testa e permettere che la tua compagna sia cacciata fuori a pedate dalla fabbrica. Tu queste cose le dovrai decidere l’anno prossimo e per ora ti prepari, twistando in una sala da ballo?”.

Del resto, era esattamente per formare il senso politico che la scuola di Barbiana era incentrata sullo studio delle lingue. In questo modo don Milani aggrediva il problema sostanziale: l’oppressione, lo sfruttamento, l’emarginazione vissute dai contadini e dagli operai è possibile anche perché il potere impone loro di parlare una lingua che non gli appartiene e che non comprendono. A Barbiana dall’alba al tramonto, per 365 giorni e 366 negli anni bisestili, tutto ruotava intorno al problema della lingua e dell’uso della grammatica come strumento di coercizione e di selezione. Scrivevano gli alunni di Barbiana in Lettera a una professoressa: “Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo”.

Come Renzo di fronte al latinorum di don Abbondio e alle gride di Azzecca-garbugli, i montanari del Mugello erano timidi e perdenti perché venivano espropriati della loro lingua e della loro cultura. L’insegnamento della lingua era dunque lo snodo fondamentale per la formazione di una coscienza critica che lievitava attraverso le seguenti uniche letture obbligatorie: il Vangelo, il Critone, il Fedone, l’Apologia di Socrate, l’Autobiografia di Gandhi, la Lettera del pilota d’Hiroshima, Il flagello della svastica, Le lettere dei condannati a morte durante la Resistenza e i Quaderni dal carcere di Gramsci. Su questi testi formavano la loro coscienza critica quei ragazzi montanari bocciati da una scuola pubblica classista, secondo la quale il figlio del contadino doveva andare nei campi e il figlio dell’operaio in fabbrica, per continuare ad arricchire il loro padrone e far studiare il signorino.

Nel suo implacabile schierarsi dalla parte degli oppressi, don Milani non si rifugiava mai nella Provvidenza panacea di tutti i mali, né tanto meno rinviava il problema della Giustizia al giudizio divino: egli era completamente immerso nella storia, e la sua lotta e il suo insegnamento acquisivano potenza e profondità proprio in quanto fortemente ancorati al passato ma, nel contempo, chiedevano una risposta qui e ora, aprendosi di fatto alla speranza di un futuro migliore. Di questo senso profondo della storia rimane una pagina indelebile: la lettera scritta a Meucci nel 1956, conosciuta come Università e pecore.

“Un contadino parte perché trova un podere migliore. Ha lavorato dieci, venti, talvolta duecento, trecento anni su quella terra e ha vissuto lui e i suoi magrissimamente perché in tutti quegli anni ha fatto vivere, non solo vivere ma studiare, il nonno del padrone e poi il padrone e poi il signorino. Loro hanno frequentato tutte le scuole e si son riempiti la casa di libri e la mente di potenza dialettica e pratica enorme senza aver mai bisogno di guadagnarsi il pane perché il pane lo guadagnava Adolfo e i suoi bambini. Adolfo che non ha fatto neanche la prima perché il signorino ha passione per le pecore e non permette che si vendano. Il signorino dice che le pecore rendono molto tanto a lui che al contadino (ed è vero) e così non permette che si vendano. E così Adolfo ha passato la sua infanzia colle pecore e ora è grande e lavora invece il podere e colle pecore manda Adriano. E Adriano ha già 10 anni ma è analfabeta come il suo babbo solo perché non può andare a scuola e perché ha da badare le pecore che hanno da fare la lana e gli agnelli e il cacio. E poi si vende la lana e gli agnelli e il cacio e la metà d’Adolfo basta solo per campare mentre la metà del signorino messa insieme a altre metà di altri poderi basta bene per andare a scuola fino a 35 anni e far l’assistente universitario volontario cioè non pagato e vivere nei laboratori e nelle biblioteche là dove l’uomo somiglia davvero a colui che l’ha creato che è sola mente e solo sapere. Sono trecent’anni precisi che la famiglia secolarmente analfabeta di Adolfo mantiene agli studi la famiglia secolarmente universitaria del signorino”.

Tanti Adolfo e Adriano, malgrado l’obbligo scolastico ed un contesto economico, sociale e culturale, oggettivamente diverso da quello in cui operava don Milani, aspettano ancora una risposta ai loro problemi. Il fatto che oggi, gli Adolfo e gli Adriano, provengano per lo più da lontani paesi stranieri, per il Priore di Barbiana non avrebbe mutato la sostanza del problema e lo avremmo sicuramente sentito recitare a voce alta l’articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

 

Massimo Sestili – Luglio 2007

Articolo pubblicato su Stilos Anno IX n. 15 24 luglio 2007

40° anniversario della morte di don Lorenzo Milani e della pubblicazione della Lettera a una professoressa.

 

Franco perdonaci tutti: comunisti, industriali, preti.

(Pubblicato il 15 novembre del 1949 sul giornale «Adesso» diretto da don Primo Mazzolari, è il primo scritto di don Lorenzo Milani.)

Il mio Franco è di nuovo disoccupato. M’ha chiesto di accompagnarlo su e giù per le scale degli industriali per cercargli un altro lavoro.

(Le raccomandazioni sono una cosa giusta o ingiusta? che ne so io? ma che dovevo dirgli di no al mio Franco disoccupato?).

Un fratello portiere mi ha aiutato a chiappare l’inarrivabile fratello Industriale nel suo ufficio.

(Come s’aprono facilmente ai preti oggi le porte degli uffici. Che è bello questo? che lo so io? ma che dovevo dir di no quando il mio Franco è disoccupato?).

Il fratello Industriale è stato gentile con me. Ha detto alla sorella dattilografa di far la schedina al mio figliolo Franco.

Io devo essere grato al fratello Industriale. Ma poi è successa una cosa triste: mentre m’alzavo per andar via avevo aggiunto: “le farò fare una lettera anche dall’officina dove Franco ha lavorato fin ora per dirle quel che sa fare”.

Il fratello Industriale mi ha steso la mano con un sorriso d’intesa: “Non importa, reverendo, se me lo raccomanda lei non sarà certo un comunista”. Perché non ho ritirato la mano Signore? Come ho fatto a non capire subito che quella mano e quell’occhiata e quella parola erano uno sputo al mio sacerdozio che è il Tuo Sacerdozio, Signore?

Fratello Industriale, quando mi è venuta la risposta ero già di nuovo nel tuo ascensore che mi riportava al pian terreno. Non ho avuto il coraggio di tornare indietro a leticare.

Ho avuto paura per il lavoro del mio Franco. Ma ora mi pare di averti ingannato, bisogna che ti risponda.

Sì, che il mio Franco è un comunista. “E un comunista non deve mangiare?” ha chiesto Franco nel tuo ascensore lucente, con un lampo di ribellione negli occhi.

E ha ragione.

Che credevi tu?

Quando, quattro mesi fa, col decreto della mia Mamma Chiesa, gli ho detto: “Sbagli, Franco, a esser comunista” (e tu fratello Industriale quella mia parola dolorante di padre l’hai sbandierata festante sui tuoi giornali) che credevi tu?

Che io gliela dicessi per te? Per salvare il tuo capitale e il tuo mondo sbagliato che deve cadere?

Io non son dalla tua.

Posso pregare per te perché Dio ti perdoni d’esser ricco. Ma non posso difendere il tuo mondo per il quale il mio Signore non ha voluto pregare.

Tu, Franco, lo sai, vero? che io non sono per loro.

Sii coraggioso.

I comunisti ti hanno ingannato gli industriali ti hanno calpestato noi preti non abbiamo saputo fare.

Franco mi vergogno del pane che mangio. È un mondo ingiusto, lo so.

Quando tu sarai più grande e io più buono lo muteremo insieme.

Per ora perdonami, non ho da dirti altro che una parola vecchia. Agli altri non la posso dire, se no ripensano all’oppio. La dico solo a te in un orecchio, perché tu puoi capirla: Perdonaci tutti: comunisti, industriali e preti. Dimenticaci, disprezzaci, fai quel che vuoi, ma il tuo Signore non lo lasciare, Franco.

Abbi il coraggio di prender la Sua croce, portala con fiducia.

Non ci hai che Lui che t’abbia amato.

Un prete fiorentino