Per Oscar Wilde era “il posto più sacro di Roma”. Il “Cimitero dei protestanti” o “Cimitero acattolico”, conosciuto anche con il nome suggestivo di “Cimitero degli artisti e dei poeti”, è un luogo di una straordinaria e monumentale bellezza, unico al mondo.

La Storia

Il «Cimitero dei protestanti» o «Cimitero acattolico», conosciuto anche con il nome suggestivo di «Cimitero degli artisti e dei poeti», è un luogo di una straordinaria e monumentale bellezza, unico al mondo, che si estende su uno spazio di appena due ettari e accoglie circa quattromila tombe di cittadini di ogni nazionalità: vi è sepolta una umanità varia di viaggiatori, poeti, artisti e diplomatici. A ben guardare i nomi delle persone qui sepolte, è fuori di dubbio che ci troviamo di fronte ad una élite di eretici. Uno stemma ritrovato su una bara nel 1930, consente di risalire ad una delle prime inumazioni ai piedi della Piramide: si tratta di uno studente di Oxford, Gorge Langton, morto nel 1738 a soli 21 anni. Tuttavia il cimitero nasce ufficialmente l’11 ottobre 1821 per dare una degna sepoltura agli stranieri di confessione protestante o greco-scismatica che vivevano a Roma, anche se, negli anni, è stata preferita la formula più ampia di cittadini acattolici.

L’area cimiteriale si estende tra la Piramide Caio Cestio, incastonata tra le Mura Aureliane e Porta San Paolo (antica Porta Ostiensis), e il quartiere Testaccio. Una iscrizione ricorda che Caio Cestio era figlio di Lucio, della tribù Poblilia, pretore, tribuno della plebe, settemviro degli epuloni, cioè colui che organizzava i banchetti per gli dèi. Costruita tra il 18 e il 12 a.C., la Piramide nel III secolo venne incorporata nelle Mura Aureliane e la Porta Ostiensis, così da formare un unico sistema difensivo della città. In un fossato scavato tra la parte antica del cimitero e le Mura Aureliane è ben visibile il selciato della via Ostiense che era diretta al porto di Roma. Il quartiere Testaccio o Monte Testaccio, che si estende tra le Mura Aureliane e il Tevere, deriva il suo nome da Mons testaceus, ovvero monte dei cocci; infatti si tratta di una piccola altura artificiale che si è formata nei secoli con gli scarichi delle anfore provenienti dal porto di Ostia.

Prima che l’attuale aerea fosse resa legalmente disponibile e protetta da una recinzione muraria, con molta probabilità i cittadini di confessione non cattolica venivano sepolti in uno di quei luoghi “privilegiati” adatti per i rinnegati, i condannati impenitenti e gli eretici; un luogo che a Roma era situato oltre la Porta Flaminia, al Muro Torto, dove venivano sepolte soprattutto le meretrici, e si calcola che nel 1700 furono circa 500. I più “fortunati” venivano trasferiti al cimitero protestante di Livorno. Se i protestanti erano considerati come lebbrosi o appestati, tanto che il popolino romano, quando scorgeva un funerale protestante, era solito gridare «Al fiume! Al fiume!», alludendo al vicino Tevere, anche agli ebrei non toccava una sorte migliore. Il cimitero degli ebrei si trovava sull’Aventino e veniva chiamato con disprezzo «ortaccio degli ebrei». Malgrado la riluttanza della chiesa cattolica, il problema di riservare un’area per la sepoltura degli eretici si fece sempre più pressante nel periodo del «Grand Tour», quando gli stranieri di estrazione sociale elevata che si recavano a Roma era notevolmente aumentata  e non potevano essere sepolti con prostitute e suicidi. La zona del Monte Testaccio con i prati limitrofi tra il Settecento e l’Ottocento faceva parte dell’agro romano ed era conosciuta come «i prati del popolo romano». Un territorio di bivacchi e feste notturne dove le prostitute allietavano il popolino. Scriveva in proposito l’inglese Stevens: “Il piede comune calpesta questo luogo dove essi vengono sepolti, cosa che dimostra chiaramente quanto riguardo abbiano per noi eretici”.

Secondo le leggi della Chiesa allora vigenti, nessun acattolico poteva essere sepolto in «terra benedetta», così le salme venivano tumulate di notte e in gran segreto per non suscitare le ire e le invettive del popolino, che spesso, fagocitato ad arte, dalle parole passava ai fatti con vili aggressioni.

Nel prato privo di mura e di alberi, all’ombra della piramide, sulle prime tombe interrate alla luce delle torce, brucavano le pecore. Extra Ecclesiam nulla salus! Per queste anime non vi era nessuna possibilità di salvezza. Ora sul portone principale d’ingresso campeggia la scritta Resurrecturis.

Tra le tombe…

Lungo i viali ombreggiati dai cipressi che separano le tre zone del cimitero, inebriato dai colori e dal profumo dei fiori, immediatamente percepisco che in questo luogo la memoria non è invasiva e opprimente, il passato suscita riflessioni e ricordi che si dipanano in un filo che tiene insieme Oriente e Occidente, Nord e Sud, cristiani protestanti ortodossi ebrei ed atei. Seguendo il filo di una storia spesso fatta di intolleranza e di conflitti, gradualmente mi immergo in un dolce naufragio della memoria che trova un appiglio nella leggerezza dell’epitaffio della tomba di John Keats (1795-1821):

Here lies One Whose Name was writ in Water

(Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua).

Innamorato della bellezza assoluta sottratta al divenire e all’effimero dell’esistenza, Keats scolpiva i suoi versi sull’acqua:

Bellezza è verità. Verità è bellezza.

Dolci le udite melodie: più dolci le non udite.

Colmo di inquietudine, intuiva la bellezza, la grazia e l’armonia che vedeva allontanarsi dall’uomo adagiato o piuttosto convinto e plasmato dalla menzogna, e nella bellezza cercava la patria ideale. Keats che, sentendo la morte ormai vicina, mandò Severn a visitare il luogo della sua sepoltura e, alla descrizione fatta dal suo amico, disse che gli pareva già di sentire come i fiori gli crescevano sopra. Sulla sua tomba attorniata da erba e fiori, penso che il suo sogno sia stato esaudito e che sia in ascolto:

Fu visione o sogno in veglia? Spente

son quelle note ormai: – Dormo od ascolto?

Visioni e sogni che ritrovo sulla tomba di Percy Bysshe Shelley (1792-1822): vagabondo, anarchico, rivoluzionario, ribelle, visionario, sognatore assetato di infinito, che lasciò la gretta Inghilterra per l’Italia, dove morì inghiottito da una tempesta nel golfo di La Spezia.

Cado / sopra le spine della vita e sanguino.

Una tempesta anticipata nella sua Ode al vento occidentale che sembra già contenere il suo epitaffio: un cuore in tempesta, come chiaramente compare nell’iscrizione tombale; Cor Cordium, Cuore dei Cuori, seguita dai tre versi del canto di Ariel dalla Tempesta di Shakespeare:

Nothing of him that doth fade, Buth doth suffer a sea-change Into something rich and strange.

È la tempesta di Adonais, scritta in memoria dell’amico John Keats, ma soprattutto la sua tempesta esistenziale che gli costerà l’espulsione dalla scuola per aver scritto un opuscolo sulla Necessità dell’ateismo. Shelley scrisse che i poeti sono i non riconosciuti legislatori dell’umanità: nella continua tensione per sentirsi parte dell’infinito, sanno cogliere la potente energia della vita cosmica che sentono pulsare dentro se stessi.

Di Shelley, Marx scrisse che era stato uno dei precursori del socialismo, e un filo s’addipana verso la tomba di Gramsci.

Di fronte alla tomba di Antonio Gramsci (1891-1937), il fondatore del Partito Comunista d’Italia, morto nelle carceri fasciste in una tragica solitudine, perviene l’eco della passione civile di Pier Paolo Pasolini e del suo amore per Roma:

Stupenda e misera città,

che mi hai insegnato ciò che allegri e feroci

gli uomini imparano bambini.

[…] Stupenda e misera

città che mi hai fatto fare

esperienze di quella vita

ignota: fino a farmi scoprire

ciò che, in ognuno, era il mondo.

Su questa tomba la lucciola, assediata da un buio profondo e disperato, provava con rinnovata e angosciata passione a riprendere il volo con parole che sanno d’amore e di senso profondo della storia:

Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,

potrò mai più con pura passione operare,

se so che la nostra storia è finita?

Pasolini, avvolto nella miseria delle periferie romane, dagli ingenui e feroci sorrisi dei ragazzi di vita, da un’umanità di una povertà indicibile che ancora invoca nella sua inguaribile innocenza il Signore. Una invocazione che ritrovo sulla tomba del romantico svedese Harald Jacobsson: Non pronunciare mai il nome di Gesù invano.

In questo cimitero, definito da Oscar Wilde il posto più sacro di Roma, riposa Gregory Corso, il poeta della beat generation che prima di morire espresse il desiderio di venire sepolto accanto a Shelley. Come Pasolini amava la disperata innocenza degli esclusi: Uscii di prigione amando i miei simili perché tutti quelli che incontrai là dentro erano fieri e tristi e belli e perduti, perduti…

In questo luogo di pensiero abbellito dalla creatività dell’uomo, per sua espressa volontà è sepolto Carlo Emilio Gadda (1893-1973). I versi per l’epigrafe della sua tomba sono stati scritti dal poeta Mario Luzi:

Qui nel cuore antico e sempre vivo di sogni e d’utopie, Roma dà asilo alle spoglie di Carlo Emilio Gadda geniale studioso artista dalle forti passioni morali e civili signore della prosa.

Gadda è stato trasferito nel cimitero acattolico, dopo non poche polemiche, il 2 novembre 2000; sia l’allora sindaco Francesco Rutelli, che l’assessore alla cultura Gianni Borgna, si sono nobilmente adoperati per rispettare la volontà di uno scrittore che, come Pasolini, aveva scelto di vivere e morire a Roma.

Goethe, in visita a Roma nel 1778, affascinato dalla bellezza della Piramide, immaginò la sua tomba circondata di cipressi e rischiarata dalla luna: il figlio August lo precederà e la sua tomba è situata tra due magnifici cipressi a ridosso delle mura Aureliane.

Qui, insieme a Dario Bellezza (1944-1996), definito da Pasolini il miglior poeta della nuova generazione, icona del movimento gay della capitale, riposano la poetessa Amelia Rosselli (1930-1996), la scrittrice Luce D’Eramo (1925-2001), l’intellettuale argentino Rodolfo Juan Wilcock, il fisico Bruno Pontecorvo, il filosofo Antonio Labriola, unitamente al principe russo Jusupov, padre dell’assassino di Rasputin.

In questa piccola altura verde e muta, il vento sussurra silenzioso dei misteri dell’universo, di un’armonia ancora possibile, di una gioia che è vita e solo l’arte può comprendere. Tra queste tombe il solido nulla eterno si impregna della leggerezza di un fiore:

eterno

tra un fiore colto e l’altro donato

l’inesprimibile nulla.

E tra i fiori continuo a camminare accompagnato dai versi di Ungaretti che assumono consistenza di fronte ai cespugli di rose che ornano le sepolture:

Morte, muta parola

ti odo cantare come una cicala

nella rosa abbrunata dei riflessi.

 

Pubblicato su Fuaié n. 21 settembre 2006